UNA VEDOVA POCO SCALTRA

di Paolo Puppa, regia di Luca Caserta

con

Jana Balkan, Isabella Caserta, Maurizio Perugini

Note di regia

In un’atmosfera rarefatta e sospesa, la vicenda di Rosaura rivive sotto forma di flashback nei ricordi dell’anziana vedova: la realtà si fa sogno o, forse, sono proprio i sogni della protagonista a divenire realtà. Gli eventi, racchiusi in gustosi quadri di corteggiamento, si succedono in una girandola di colori con la passione di un walzer di Shostakovich. Emergono, nello spezzettamento e nell’astrazione dei nessi logici, i meccanismi tipici dell’inconscio onirico: la scansione delle scene, basata su accostamenti associativi, nonché i continui scambi di ruoli richiamano alla memoria modelli cinematografici, come la sintassi lynchiana.

La struttura narrativa, forte della commistione linguistica voluta dall’autore, ha la sua vis nelle figure dei pretendenti alla mano di Rosaura, la cui comicità si vorrebbe far scaturire dalle particolarità dei rispettivi idiomi, oltre che dalla mimica e dalla tecnica interpretativa degli attori. A tal proposito s’è affidato il ruolo dei tre amanti (il francese, l’inglese e lo spagnolo) a un uno solo di essi, che, come in un ballo in maschera, passerebbe da un personaggio all’altro mettendo in discussione la percezione della realtà secondo l’ottica distorta del sogno o della follia. Anche Rosaura è sdoppiata in se stessa da giovane e da vecchia, dando così vita a un continuo sfasamento del reale. Il passaggio da una scena all’altra è costruito su una rarefazione dei movimenti, con i personaggi che richiamano visivamente gli “autòmata” e i meccanismi di un orologio animato. L’elemento “tempo” e il suo fluire divengono in tal modo incombenti, a sottolineare come tutto scorra inesorabilmente senza quasi lasciarci una possibilità di scelta razionale, manichini nelle mani di forze a noi estranee.

L’originaria ambientazione a ridosso del carnevale veneziano, presente nel testo di Goldoni, ritornerebbe, quindi, come sottotesto nel tema del “mascheramento”, che ridefinisce il confine tra realtà e finzione: attori che interpretano personaggi in abiti d’epoca o persone reali che scaturiscono dal magma temporale per vivere nel breve spazio della scena teatrale? Un solo uomo che diventa più individui sotto gli occhi degli spettatori; gli spasimanti, i cui tratti stereotipati rimandano a “tipi” e, quindi, a maschere o marionette; la lingua italiana, a sua volta camuffata con improbabili idiomi stranieri; il Conte di Bosco Nero che, allo stesso tempo, è Arlecchino e professore di lingue. Quest’ultimo è reso sulla scena con le fattezze di un enigmatico fantoccio-spaventapasseri, la cui voce registrata assume sfumature diaboliche a ricordare l’origine demoniaca del personaggio: tale immagine si rifà ironicamente all’immobilità di alcuni ambienti accademici che il professore incarna, ma simboleggia anche l’inconsistenza di quest’uomo come amante della giovane Rosaura, la formalità d’un rapporto privo d’amore e, di fatto, il fallimento di vita della donna. Il dialogo tra i due assume in tal modo connotati surreali, giocando sull’alternanza di voce dal vivo e registrato, che porta a una ripetizione-congestione delle frasi e delle situazioni in una sorta di cortocircuito onirico, al quale fa da sfondo una sempre maggiore astrazione dei movimenti.

Il tutto, visto attraverso la lente deformata del miraggio, rimanda appunto (seppur in chiave comica) alla dimensione del sogno per mezzo di un costante gioco di specchi, sul quale in apertura e chiusura incombe un temporale lontano quanto minaccioso, indice di una frattura nel continuum spazio-temporale da cui emergono caratteri e storie che prendono forma e vita dinanzi agli spettatori.

Luca Caserta

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